Posted on

I book-sniffer

L’odore dei libri

Il gesto è furtivo, istantaneo. La mano sinistra regge il volume, il pollice della mano destra carezza il taglio delle pagine facendole scorrere come un mazzo di carte, il naso s’avvicina, quasi si tuffa nella leggera brezza prodotta dall’insolito ventaglio. Pochi attimi di intenso, voluttoso annusamento: e ci si ricompone. Il commesso della libreria e il cliente accanto fingeranno di non aver visto. Perché tutti lo sanno, ma nessuno lo ammette di buon grado: gli sniffatori di libri esistono. Sono fra noi. Sono migliaia. Vampiri di un piacere innocuo e compulsivo, cleptomani di un bene impalpabile e raffinato. Sono quasi sempre grandi lettori, che i libri, dopo averli così assaggiati, li comprano davvero: anche per questo il libraio lascia fare. Del resto è quasi sempre anche lui, come molti pusher, un consumatore-dipendente dell’odor di libro. Piacere negato, solitario, inconfessabile e inconfessato. (…).

I book-sniffer sono milioni, chiunque di voi ne conosce qualcuno, o lo è in proprio. Ma non hanno mai fatto comunella, non sono una lobby, non fondano club, non si affiliano in sette, neppure clandestine: si vergognano. Il motivo è chiaro: leggere e annusare stanno agli estremi opposti, il più alto e il più basso, il più spirituale e il più terreno, nella scala degli strumenti della conoscenza. Pesa come un macigno il giudizio di Kant, che considerò l’olfatto «il più superfluo e ingrato dei sensi», pesano secoli di puzze volgari e miasmi pericolosi, pesa l’idea darwiniana che l’homo sapiens, emancipatosi dai confratelli animali, non abbia più bisogno del naso per esplorare un mondo ben altrimenti conoscibile. L’idea che il primo contatto con il libro, arca della sapienza, anziché per oculos possa avvenire attraverso le narici suona sconveniente, quasi sconcia. Gli odori hanno cittadinanza nelle librerie e nelle biblioteche solo se trasfigurati dalla parola scritta: così, da Rabelais a Suskind, gli ironici o drammatici odori nei libri sostituiscono e sublimano, come una medicina, come un antidoto, gli indecenti odori dei libri. Eppure quel gesto impenitente, privato e carbonaro, clandestino e sovversivo, resiste al «silenzio olfattivo» (come lo chiama con mestizia Alain Corbin, il maggior storico degli odori) della nostra modernità deodorata e anosmica. Si fa, ma non si dice. I grandi scrittori non ne parlano mai, anche quando ci vanno molto vicini. Proust, che è inevitabile citare in ogni discorso sulle percezioni corporee, preferisce affidare alla beneducata e accettabilissima madeleine il ruolo di relais sensitivo della memoria. Il meticoloso Georges Perec annovera fugacemente «l’odeur des livres» nell’inventario dei suoi ricordi, in Je me souviens. Forse non sbaglia chi sospetta Henry David Thoreau di essere un malcelato sniffatore di pagine stampate, citando a riprova un suo accenno al libro come «qualcosa di naturale e primitivo, misterioso e meraviglioso, inebriante e fertile come un fungo o un lichene». La degustazione nasale di romanzi, saggi ed enciclopedie è rimasta fino ad ora confinata nella sfera del consumo privato, preferibilmente domestico, quando al ritorno dalla libreria si lacera l’orrido cellophane, (orrido ma in questo caso provvidenziale perché, come fa con i formaggi del supermercato, preserva la fragranza e la fa esplodere al momento del consumo) e ci si concede un lungo, gratificante aerosol di essenze editoriali. Finché qualcosa è accaduto, e l’inconfessabile è stato confessato, perfino invocato e rivendicato. Digitate su Google la stringa “odore dei libri” in qualsiasi lingua, e la maggioranza dei rimandi vi porterà ai blog di lettori accaniti che discutono il futuro digitale del libro. Dibattiti in cui regna l’entusiasmo cyber-ottimista, che accetta ogni versione virtuale delle antiquate abitudini materiali (sesso e cibo compresi), ma mitigato da un rimpianto insistente, esplicito e condiviso: sì, l’e-book è una gran cosa, ma come la mettiamo col profumo delle pagine? Lo perderemo per sempre? Trapela perfino, nei messaggi, maggiore nostalgia preventiva per l’odore che per il contatto delle dita con la superficie ora liscia ora ruvida delle pagine e delle copertine (tanto per dar ragione a San Tommaso, che poneva l’olfatto un gradino sopra il tatto perché meno materialmente coinvolto dal suo oggetto). Dalle timide confessioni iniziali, via via confortate dagli interlocutori, s’arriva alle esplosioni liberatorie: «Ma allora anche tu annusi i libri? Credevo di essere l’unico», «Eccome, io so indovinare l’editore senza aprire gli occhi». Bisogna dire che il momento è propizio. Il secolare pregiudizio anti-olfattivo da qualche anni mostra crepe, vacilla, è vicino al crollo. Corsi per “nasi”, i sommelier dei profumi, se ne organizzano ormai anche nelle polisportive. L’aromaterapia si fa largo a gomitate tra le medicine alternative. In alcuni musei archeologici (ad esempio l’Etrusco di Cortona) i “percorsi olfattivi” pensati per i visitatori ciechi sono graditissimi anche ai vedenti. L’arte di irrorare supermercati e negozi con gli aromi giusti per favorire i consumi è una tecnica commerciale ormai affermata. Non può essere un caso che il Nobel per la medicina 2004 sia andato ai due ricercatori statunitensi, Richard Axel e Linda Buck, che hanno svelato i meccanismi con cui il cervello seleziona e distingue migliaia di sensazioni olfattive diverse. Fabbricare artificialmente odori che abbiano una risonanza con l’esperienza personale (come la vecchietta del film Harold e Maude di Ashby, che metteva in scatola «il profumo dei miei passi sulla neve») è già di provato ausilio nella terapia dell’alzheimer e perfino nel risveglio dei comatosi. «Più profumo e meno Prozac» è il motto non del tutto ironico di Stefano Bader, il chimico che ha importato in Italia il marketing olfattivo (…). L’odore, spiega, fa parte della natura del libro, lo colloca al confine tra il regno animale (le colle) e quello vegetale (le carte). Ma soprattutto fa parte della storia del libro, a cui fornisce aneddoti preziosi: i testimoni di Geova internati nei lager nazisti, non volendo privarsi dei loro libri sacri, li seppellivano sotto cespugli di rabarbaro onde ingannare l’olfatto implacabile dei dobermann dei kapò. L’odore del libro, inoltre, ha una sua propria storia: un buon intenditore può datare un’edizione anche solo fiutandola. La resistente carta di stracci usata nel Settecento manda sentori diversi dalla deperibile carta di cellulosa dei best-seller di oggidì. Gli inchiostri al nerofumo che ancora feriscono nel ricordo le narici degli ultracinquantenni hanno lasciato il passo ai più garbati pigmenti a base acqua. Scomparse le colle di gelatina d’ossa, oggi i dorsi sanno di solventi sintetici, i cui composti possono avere effetti psicotropi: particolare che rischia di apparentare gli intellettuali annusa-libri ai giovanissimi sniffatori di colla delle periferie africane o balcaniche. Infine, anche l’odore di ogni singolo libro ha una storia: evaporati gli effluvi della carta fresca, s’impongono col tempo quelli della polvere e dei micro-funghi, della decomposizione delle fibre, ed anche gli odori estranei dell’ambiente: il libro cattura, incamera, ricorda e restituisce l’odore delle sigarette del suo proprietario, del cibo della sua cucina, del sudore delle sue dita, insomma diventa il suo alter-ego olfattivo. Ora però, svelato (incautamente) il gran segreto della comunità dei fiuta-pagine, un grande rischio si profila all’orizzonte. Dal momento che esistono già odori progettati apposta per svegliare l’attenzione di una platea congressuale, ammorbidire l’ansia di una corsia d’ospedale, indurre l’acquisto di un prodotto culinario (facile, questo), persuasori occulti dei nostri recettori epiteliali, perché un editore appena più intraprendente degli altri non dovrebbe sfruttare la leva olfattiva come arma promozionale? Già somigliano a scatole di cioccolatini certi best-seller con i titoli dorati e in rilievo. Un passo in più, che cosa cambia? Librerie come profumerie. Quale sarà la fragranza giusta per Wilbur Smith? Erbe riarse di savana? Zolfo e incenso per Dante? Troppo facile, però… Un campo d’attività tutto da esplorare per gli uffici marketing. Purtroppo, dopo tutto quel che abbiamo raccontato, non siamo più tanto sicuri che i lettori, anche i più smaliziati, non si lasceranno prendere per il naso.

Articolo pubblicato da “La Repubblica”, 17 settembre 2006 di Michele Smargiassi

Share