Categoria: Storia
Quando il lavoro era ancora chiamato Arte
Cenni per il Macchinista!
L’etimologia dei colori
Con tutte le volte che usiamo li usiamo, ci siamo mai chiesti da dove provengano i nomi dei colori? Ecco alcune brevi spiegazioni:
*Arancio: per indicare il colore, questo termine è attestato circa dal 1540; prende il nome dal frutto dell’arancio, dall’etimologia curiosa: deriva dal sanscrito naranga-s (che indicava appunto l’albero), passato poi al persiano narang, poi all’arabo naranj e acquisito in veneziano come “naranza”, poi alterato in “narancia”. La perdita della consonante iniziale fu dovuta forse perché venne scambiato per l’articolo (“n’arancia”; certo meglio di “una narancia”), forse all’influsso del latino aurum, “oro”.
*Azzurro: un lemma di origine persiana, derivato da لاجورد (lajvard, lazvard), che indicava il lapislazzuli o lo zaffiro.
*Beige: un colore “multifunzionale”, che sebbene sia un giallo crema sporco, finisce spesso per indicare altre tonalità di marrone (o di grigio). Il termine è francese, e indicava un tipo di tessuto fatto con lana non tinta, lasciata del suo colore naturale (il beige, appunto). L’origine etimologica del termine “beige” è ignota.
*Bianco: deriva dal germanico blanc (o blanch, blank), che voleva dire “splendente”, “brillante”, “rilucente”, “scintillante”: era molto usato per le armi, il che è all’origine della moderna espressione italiana “arma bianca”. Il termine germanico rimpiazzò il latino albus (da cui “alba”, “albino”, “albume” e via dicendo), di identico significato.
*Blu: si rifà al germanico blao, a sua volta dal protoindoeuropeo bhle-was. Questa radice significava non solo “blu”, ma anche “color della luce”, “biondo”, “giallo”, e da essa deriva il latino flavus (appunto, “giallo”).
*Bordeaux: a volte italianizzato in “Bordò”, deve il suo nome all’omonimo vino rosso, prodotto appunto presso la città francese di Bordeaux. Il nome di quest’ultima – in latino “Burdigala” – ha origini celtiche o pre-celtiche, ormai indecifrabili.
*Celeste: questa è semplice e intuitiva: dal latino caelestis, letteralmente “del cielo”.
*Ciano: deriva dal greco κύανoς (kýanos), che significa “blu scuro”, e indicava anche gli smalti di quel colore e i lapislazzuli. L’origine, probabilmente, non è indoeuropea, ma potrebbe essere correlata al termine ittita kuwanna(n)-, che indicava il colore blu della patina che si forma sul rame.
*Fucsia: deve il nome all’omonimo fiore, la fucsia, che a sua volta è stato così battezzato in onore del botanico Leonhart Fuchs.
*Giallo: l’origine sta nel termine proto-germanico gelwaz, che significa proprio “giallo”, “verde pallido”; una parola correlata, galbus, galvus, era presente in latino. Può essere ricondotto alla radice indoeuropea -ghel, che, curiosamente, oltre a voler dire “brillante”, “splendente”, significa anche “urlare”, “gridare” (si noti il verbo inglese yell, appunto “urlare”): il giallo è davvero un colore che attira l’attenzione!
*Grigio: dal proto-germanico *grisja, gris, che indicava un colore nero mischiato al bianco, ed era usato perlopiù per capelli e penne di uccelli: questo significato è riflesso nel moderno termine tedesco greis, “vecchio”.
*Indaco: dal latino indicum, a sua volta dal greco ινδικόν (indikón), letteralmente “proveniente dall’India”, “indiano”. L’indaco era infatti un colorante ricavato dalle foglie delle piante del genere Nerium native della regione.
*Magenta: questo rosso tendente al fucsia venne creato nel 1859 da François-Emmanuel Verguin, ossidando l’anilina. È stato così battezzato in memoria della famosa battaglia di Magenta, in riferimento al sangue che vi fu sparso. L’origine del nome della città di Magenta è dubbia, e sono state proposte numerose ipotesi.
*Marrone: dal francese couleur marron, cioè “color castagna”. Il termine “marron” è di origine dibattuta. Viene ricondotto ora al greco maraon (“castagna dolce”), ora al celtico mar (“grande”), ora a qualche ignota radice pre-romana, forse ligure.
*Nero: deriva dal latino nigrum, che significava “nero”, “scuro”, “cupo”, e in senso figurato voleva anche dire “tetro”, “sfortunato”, “cattivo” e altri concetti simili. Alcuni studiosi hanno ipotizzato anche una connessione al greco νεκρός (nekrós), “morte”. Potrebbe, in ultimo, essere ricondotto al protoindoeuropeo nekw-t, “notte”.
*Ocra: dal greco ὠχρός (ochros), con il significato di “giallo pallido”.
*Rosa: riprende pari pari il nome del fiore della rosa; l’origine sta nel greco ‘ροδον (rhodon), che si può forse ricollegare ad una radice protoindoeuropea, wrdho, con il significato di “spina”.
*Rosso: è l’unico colore per il quale sia stata definita univocamente una chiara radice protoindoeuropea, cioè *reudh-: da essa derivano il latino ruber, rufus (da cui l’italiano “rosso”), il proto-germanico rauthaz (da cui l’inglese “red” e il tedesco “rot”), e anche i loro corrispettivi greci, slavi, celtici, sanscriti e in altre lingue ancora.
*Turchese: prende il nome dalla pietra preziosa, il turchese, che originariamente veniva dalla Turchia o da regioni vicine; il significato è proprio “turco”, “della Turchia”.
*Verde: dal latino viridis, da virere, “essere verde”, “verdeggiare”. Di ultima origine ignota, forse riconducibile a una radice protoindoeuropea ghvar, “essere verde (o giallo)”, forse per estensione da “splendere”.
*Viola: si rifà al latino viola, imparentato con il greco ιον (ion): indicava il fiore della viola, dal quale prende il nome questo colore.
etaoin shrdlu
No, non è una formula magica per far ripartire l’economia nazionale, bensì una sequenza di lettere entrata nella storia della tipografia statunitense. Questa è la storia: quando il signor Ottmar Mergenthaler, nel 1881, inventò la Linotype, le tastiere di tale macchina (ne vedete una qui a fianco) non erano certo le “QWERTY” che usiamo oggi, bensì erano più simili a quelle di una macchina da scrivere: i tasti erano disposti per frequenza d’uso e le due colonne più a sinistra erano occupate dai caratteri minuscoli e-t-a-o-i-n e s-h-r-d-l-u.
Ora, direte voi, embè? Cos’aveva di tanto particolare “etaoin shrdlu”da entrare nella storia della tipografia? Pare che, quando gli operatori commettevano qualche errore, anziché rimuovere le lettere sbagliate, facessero semplicemente scorrere il dito giù per la tastiera in modo da finire la riga, che poi sarebbe stata rimossa prima della stampa (corso rapido di Linotype: battendo una lettera sulla tastiera, non si stampava nulla, bensì si “sganciava” un singolo carattere mobile: scrivendo, quindi, si componeva letteralmente la matrice, che poi sarebbe stata usata per stampare; quindi, una riga errata poteva essere rimossa, dall’operatore stesso o dal tipografo, prima della stampa). Solo che, a volte, la riga non veniva notata e restava lì in mezzo alle altre, e l’etaoin shrdlu finiva in stampa, campeggiando allegramente negli articoli di giornale – come nell’estratto qui a destra (alla fine della penultima riga del paragrafo).
Questa sequenza di lettere dev’essere apparsa sulle pagine dei giornali talmente tante volte che la gente avrà preso a cercarla sul dizionario; dai e dai sono stati accontentati, tant’è vero che l’espressione ha finito per essere inclusa in diversi vocabolari, fra cui il prestigioso Oxford English Dictionary. Come il “lorem ipsum”, di cui avevamo già parlato in passato, “etaoin shrdlu” è diventata una frase in qualche modo cara ai tipografi statunitensi: quando il New York Times uscì con il suo ultimo numero stampato con la Linotype (il 2 luglio 1978), l’evento venne ricordato in un documentario titolato proprio Farewell, Etaoin Shrdlu.
Quando il font divide la nazione
Penso che tutti noi che lavoriamo nell’ambiente grafico abbiamo una preferenza per questo o per quell’altro font: c’è chi predilige l’Helvetica, chi è un fan del Garamond; io personalmente ho un debole per il Futura. Difficile però che la divergenza di opinioni sull’argomento possa arrivare più in là di un “Va là, va là, ma come fa a piacerti il Comic sans?”. C’è però, ovviamente, un’eccezione, e in questo caso è decisamente clamorosa:
Verso la fine del 1400 vennero creati, dal francese Nicolas Jenson e dall’italiano Aldo Manuzio, i font Antiqua: l’Antiqua passò a sostituire, in tutta Europa, i caratteri Fraktur: solo in Germania i due tipi di font coesistettero più a lungo, con l’Antiqua usato per i testi latini e il Fraktur per quelli tedeschi: inizialmente pura convenzione, la situazione divenne ben presto di carattere ideologico, con dispute partigiane su quale fosse il carattere migliore.
La vicenda assunse risvolte grotteschi a partire dal 1800, quando la Germania cercò di definire dei valori culturali comuni per tutta la popolazione tedesca; l’operazione coinvolse anche la letteratura e la grammatica, e i sostenitori dei due caratteri si spaccarono in veri e propri schieramenti opposti. I fan del Fraktur, ad esempio, sostenevano che l’Antiqua fosse “non tedesco”, “superficiale” e “poco serio”, in contrasto col loro beniamino, che sarebbe invece stato “sobrio” e “profondo” (in effetti, ammettiamolo, ha quell’aria tutta germanica, il Fraktur, già a partire dal nome!). Si narra l’aneddoto secondo cui Katharina Elisabeth Textor, madre di Goethe, chiese al figlio di “rimanere tedesco, per l’amor di Dio”, anche nella scrittura, col risultato che egli smise di usare l’Antiqua e ritornò al Fraktur. Non era immune dalla disputa nemmeno il cancelliere Bismarck, che al ricevere in regalo un libro in tedesco scritto in Antiqua lo rispediva dritto al mittente, scrivendo “Non leggo libri tedeschi in scrittura latina!”
Il secolo successivo la battaglia continuò imperterrita: tale Adolf Reinecke, nel 1910, scrisse un vero e proprio manifesto del Fraktur sostenendo che, a differenza dell’Antiqua, fra le altre cose, esso “non causava miopia”, “rendeva facile l’apprendimento del tedesco agli stranieri” e “non facilitava l’infestazione di parole straniere”. La faccenda giunse nientepopodimeno che al Reichstag, dove la Verein für Altschrift, una società sostenitrice dell’Antiqua, propose di renderlo carattere ufficiale nazionale, e di insegnare nelle scuole a scrivere in corsivo “latino” anziché con la scrittura tradizionale (chiamata kurrent e basata sui caratteri gotici): risultato, dibattito acceso e proposta respinta per 85 voti contro 82.
La parola fine alla questione la pose il nazismo: nel periodo iniziale il Fraktur venne propagandato come la vera e sola scrittura tedesca e poi, nel 1941, con un inaspettato dietro-front, venne bollato come “scrittura giudaica” e vietato, seguito a ruota dal kurrent e dal sütterlin, un altro corsivo introdotto solo negli anni venti. Pare fosse il führer stesso ad avere in antipatia il Fraktur, dato che dichiarò:
“La vostra dichiarata intenzione di internalizzazione del gotico non si adatta a questa età di acciaio e ferro, vetro e cemento, bellezza femminile e forza maschile, di alzate di testa ed intenzioni provocatorie… In un centinaio d’anni la nostra lingua sarà la lingua europea. Le nazioni dell’est, del nord e dell’ovest che vorranno comunicare con noi impareranno la nostra lingua. Il prerequisito per ciò: la scrittura denominata gotica sarà sostituita dalla scrittura fino ad ora denominata latina…”
Dopo la fine della guerra, alcune scuole ripresero ad insegnare il sütterlin come forma alternativa, ma il corsivo latino, ormai imperante, non gli lasciò scampo. Ciò significa che molti dei tedeschi di oggi non sono in grado di decifrare la scrittura di diari e scritti dei loro genitori o nonni, data la significativa differenza delle due scritture corsive. Ad oggi, il Fraktur sopravvive solo, oltre che in piccole società culturali poco conosciute, nei loghi delle birre e nelle insegne delle osterie.
La volpe e il cane
“The quick brown fox jumps over the lazy dog“. Vi ricorda qualcosa? Probabilmente allora vi sono passati per le mani alcuni campionari di font, dove questa frase è utilizzata per mostrare come risultano le lettere nei diversi caratteri.
Come mai proprio questa frase, che parla di una “veloce volpe marrone che scavalca con un balzo il cane pigro”, è stata usata per questo scopo? Si tratta di un pangramma, ovvero una frase che comprende tutte le lettere dell’alfabeto, ideale quindi per questa funzione, anche se alla sua origine era pensata per tutt’altro: nel 1885 una rivista per insegnanti la propose come ottimo metodo per i dettati e la calligrafia, e con il crescente utilizzo delle macchine da scrivere si fece strada nell’insegnamento della stenografia e della dattilografia.
Da lì ai campionari di font il salto è stato breve, ma la frase è divenuta molto popolare anche al di fuori di questi ambiti, diventando il tema di fumetti, libri per bambini e giochi di parole. A Pisa ci hanno realizzato anche un murales, su un muro di oltre venti metri, e questa scena appare, neanche a dirlo, nel noto film Disney Red e Toby – Nemiciamici! Stupisce sempre piacevolmente, credo, scoprire che questi piccoli dettagli del nostro settore hanno una storia e una diffusione che non ci aspettavamo: auguro quindi alla nostra “volpe” di poter continuare a saltare qua e là per molto tempo ancora.
Riflessioni sulla crisi
In questo periodo economicamente e socialmente difficile, “la crisi” è diventata un argomento di discussione diffuso. In rete si trova questa citazione, attribuita ad Einstein: l’attribuzione è probabilmente errata, ma questo non le impedisce di offrirci uno spunto di riflessione su come affrontare questo periodo:
“Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi può essere una grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e disagi, inibisce il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni.”
Il Lorem ipsum
Molti grafici, se non tutti, hanno avuto a che fare con il Lorem ipsum, un “mostro sacro” del nostro settore, ma quanti sanno esattamente da dove deriva?
Il primo uso documentato di questo testo – di cui esistono più versioni – si ebbe nel ‘500, quando uno stampatore lo usò per mostrare i propri caratteri, mentre al giorno d’oggi è diventato uno dei testi di riempimento standard usati nell’impaginazione. Il testo in realtà non ha nessun significato: si tratta solo di parole (o pezzi di parole) a caso, tratte dal De finibus bonorum et malorum, un testo di Cicerone del 45 a.C.. Come però sia giunto a noi in questa forma rimane un mistero: la provenienza, infatti, è stata scoperta per puro caso da un latinista statunitense, negli anni ’60.
Errori da Cambridge
A quanto pare, una non meglio identificata ricerca condotta a Cambridge dimostrerebbe che gli errori tipografici non sono un problema.
I clienti saranno d’accordo?